Grazie ai progressi della medicina e della prevenzione, nonché a condizioni di vita più sane e sicure, tutti i Paesi OCSE sono oggi caratterizzati da maggiore longevità. È un fenomeno certamente positivo che, se ben governato, genera un incremento delle opportunità individuali e collettive.
L’aumento della popolazione anziana è però anche un fenomeno “relativo”, in quanto si accompagna a una diminuzione di quella più giovane, dovuto al calo prolungato e costante della natalità nel corso del tempo. Questa seconda tendenza ha dato il via a una vera e
propria “transizione demografica”: le nascite non controbilanciano i decessi, la popolazione totale si contrae.
Qualcuno potrebbe chiedersi: ma che male c’è se la popolazione diminuisce? Non siamo già troppi? Due domande ragionevoli, ma solo in apparenza. Facciamo un esperimento mentale e immaginiamo un’Italia che passi da 60 a 40 milioni di abitanti. Raggiunti i 40 milioni, la struttura per età della popolazione assomiglierebbe a una specie di petalo: uno stelo sempre più sottile di bambini, che si amplia in un ovale fra i 45 e i 65 anni e poi si restringe fino a una punta di ultracentenari.
Meno giovani e meno adulti sotto i 45 anni significa però meno PIL. Non è uno scenario sostenibile. Se non vogliamo scendere sotto i 40 milioni ed estinguerci progressivamente, a un certo punto il tasso di fertilità dovrà risalire verso il fatidico 2,1% di figli per donna. Per evitare la catastrofe demografico-economica non c’è dunque alternativa: le famiglie italiane devono essere messe nelle condizioni di procreare di
più. E ciò deve avvenire presto.
Ciò che rende la transizione demografica un fenomeno particolarmente problematico è che, quando le nuove nascite non controbilanciano i decessi, la composizione interna della popolazione subisce una marcata distorsione, aumentano i cosiddetti tassi di dipendenza (il numero di persone non attive rispetto a quelle attive) e si creano problemi crescenti di sostenibilità finanziaria per il welfare state.
Da ormai vari anni in Giappone si vendono più pannoloni che pannolini. Si tratta del Paese più “vecchio” del mondo: gli anziani con più di 65 anni sono il 27% della popolazione e aumentano ogni anno. In futuro chi pagherà per i pannoloni? Se nascono sempre meno bambini, il rapporto fra lavoratori e pensionati è destinato a peggiorare, con effetti negativi sui redditi delle famiglie e soprattutto sul welfare.
Secondo i demografi, i Paesi OCSE sono entrati in quello che viene chiamato “inverno demografico”, ossia la fase in cui il rallentamento dei tassi di fertilità che ha innescato la transizione sembra aver raggiunto il proprio plateau negativo e l’ondata di “degiovanimento” fa chiaramente sentire i propri effetti anche nelle fasce di età attive. In questo generale contesto, l’Italia si trova in condizioni di particolare criticità, molto vicina al Giappone.
Da noi il degiovanimento è particolarmente intenso in termini numerici (sempre meno giovani) e si accompagna alla debole presenza dei giovani nella società e alla loro bassa partecipazione al mercato del lavoro. Il tasso di dipendenza degli anziani dagli occupati ha raggiunto il valore di 0,4. Grosso modo, ciascun occupato finanzia con il proprio reddito l’insieme dei trasferimenti e dei servizi di 0,4 anziani: si sobbarca, cioè, il 40% circa delle spese.
Ci sono altri elementi da considerare (ad esempio i trasferimenti intergenerazionali, le imposte comunque versate dagli ultrasessantacinquenni e così via). Tuttavia, 40% è un valore elevato sul piano comparativo, quasi doppio rispetto ai soliti inarrivabili Stati nordici. E il tasso di dipendenza italiano potrebbe raggiungere il 100% già nel 2050: un occupato, un pensionato.
Il degiovanimento produce peraltro anche una significativa contrazione di donne in età fertile, quelle su cui contare per il ricambio generazionale. L’indicazione è allarmante perché significa che, a parità di condizioni, nasceranno in futuro ancora meno bambini: vi saranno infatti sempre meno madri potenziali.
Per usare il linguaggio dei demografi: la transizione italiana è entrata in una fase di «avvitamento», come una spirale. Si stanno infatti erodendo le basi demografiche per il funzionamento dell’economia (calo della popolazione in età da lavoro) e per la riproduzione biologica e sociale (calo delle donne in età fertile). Più che di inverno demografico, per l’Italia sembra appropriato parlare di vera e propria era glaciale.
Per rispondere all’emergenza demografica il rapporto propone l’adozione di diverse misure raccolte in quelle che viene definita “agenda FAST”. Si tratta di un acronimo delle direttrici di marca necessarie al nostro welfare per invertire la rotta: F come famiglia, a cui indirizzare trasferimenti e agevolazioni fiscali capaci di ridurre il costo dei figli senza disincentivare il lavoro delle madri; A come asili, soprattutto nidi; S come servizi che permettano a donne (e uomini) di non dover sacrificare la procreazione per i troppi carichi di cura; T come tempi flessibili da ottenere attraverso lavoro “agile”, riorganizzazione dei “tempi della città” e così via.
Ma FAST, ricordano gli autori, ricorda anche quanto serva fare in fretta (“fast” in inglese significa “veloce”) nello sviluppare interventi che siano in grado di andare oltre la retorica e che permettano di determinare un approccio strategico verso la natalità.
* Dall'Introduzione del Rapporto