Con il concetto e il termine di “economia sociale” si sta cercando di “dare un nome”, un’identità riconoscibile, nei diversi contesti culturali, all’insieme delle organizzazioni, produttive e non, che si collocano tra il settore pubblico - di cui condividono gli obiettivi - e quello privato a scopo di lucro - con cui condividono la natura privata dei promotori e, in parte, le modalità di gestione.
Rispetto ad altri termini utilizzati allo stesso scopo - volontariato, organizzazioni non governative, settore non-profit, terzo settore - il concetto di “economia sociale” presenta due importanti vantaggi: (1) è l’unico a ricomprendere tutte le forme organizzative che stanno tra i due settori - quello delle istituzioni pubbliche nel loro insieme (definite come Stato) e quello delle imprese convenzionali o for-profit (definite impropriamente come mercato) - incluse le cooperative, generalmente non comprese negli altri concetti, e (2) definisce il settore
non per quello che non è, ma in positivo, sulla base del possesso di una serie di caratteristiche distintive.
Ha tuttavia anche due limiti: (1) include organizzazioni che non fanno parte in senso stretto dell’economia, come molte associazioni senza scopo di lucro, ed (2) è riconosciuto e utilizzato, almeno per il momento, soprattutto nei paesi francofoni (Francia, Belgio e Québec) e in Spagna, anche se comincia a essere usato anche in Italia e nel Regno Unito. Mentre in Sud America e in diversi paesi in via di sviluppo si presenta spesso nella variante di “economia sociale e solidale”, sia per sottolineare gli effetti dell’azione delle varie organizzazioni sulle comunità locali, specie nelle realtà in cui è più avvertito il bisogno di un modello di crescita alternativo rispetto a quello dominante, sia per ricomprendere anche le molte realtà informali che dell’economia sociale condividono le caratteristiche distintive.
A ben vedere si tratta di organizzazioni che hanno una storia molto più lunga sia delle imprese capitalistiche che delle organizzazioni pubbliche, in particolare di quelle di welfare, ma che soprattutto della seconda metà del ‘900 hanno perso rilevanza. Più che i pregi ne sono stati sottolineati i limiti: la debolezza in presenza di comportamenti opportunistici, la cronica sottocapitalizzazione, i costi di governance elevati a causa dei processi decisionali. Alcune sono state fagocitate, già negli anni del dopoguerra, dentro i sistemi di welfare pubblici che ne hanno ripreso principi e organizzazione - come nel caso delle mutue sanitarie - altre, soprattutto nel settore finanziario e delle mutue non sanitarie, sono state assimilate alle imprese pubbliche e quindi trasformate - con l’accusa di inefficienza - in imprese private di capitali (non privatizzate in senso stretto, ma demutualizzate).
Tuttavia, nonostante l’ambiente sfavorevole ne sono rimaste in vita molte più di quelle che letteratura economica e narrazioni di parte vogliono far credere, e negli ultimi decenni a fronte di nuovi problemi - o vecchi problemi rimasti irrisolti - ne sono nate di nuove, determinando una crescita oggettiva di queste realtà e della loro importanza soprattutto in settori di particolare rilevanza sociale.
Ridestando così una nuova attenzione nei loro confronti.
Si spiega così il recente e sempre più diffuso riconoscimento dell’importanza del contributo effettivo e potenziale delle organizzazioni dell’economia sociale al benessere delle persone e alla sostenibilità economica, sociale e ambientale da parte di studiosi di diversi governi e di organizzazioni internazionali come ILO (2022), OECD (2022) e Nazioni Unite (2023), ma soprattutto da parte della Commissione europea, che dopo aver approvato l’Action Plan per l’Economia Sociale (2021) ha recentemente (2023) formulato una raccomandazione del Consiglio europeo ai paesi membri, con la quale si chiede di promuovere specifiche politiche nazionali di sostegno all’economia sociale.
Queste ultime prese di posizione, inserendo l’economia sociale come ecosistema autonomo all’interno della strategia industriale, sanciscono definitivamente il riconoscimento di questo settore come una componente essenziale delle strategie europee di sviluppo, in quanto riferite non solo alle politiche sociali, ma a tutto il complesso delle politiche economiche e industriali.
Per le risorse a disposizione e per la volontà di coinvolgimento dei Paesi membri, questo nuovo orientamento - che modifica la storica propensione UE verso politiche orientate prevalentemente a rafforzare la componente del mercato - rappresenta al contempo sia un importante punto di arrivo, perché chiude la “fase del riconoscimento” dell’economia sociale, sia di partenza, stimolando la riflessione su come dare forza a tale riconoscimento e come innovare non solo le politiche di sostegno, ma anche le diverse politiche sociali e regolamentative.
All’economia sociale viene in particolare riconosciuta la capacità di rimodellare lo sviluppo economico secondo principi di sostenibilità ambientale e sociale, stimolando la trasformazione di cui si avverte sempre più il bisogno. Peraltro in sintonia con l’analogo indirizzo su cui stanno convergendo altre le principali istituzioni globali, come appunto l’OECD e le Nazioni Unite, per le quali il tema dello sviluppo
sostenibile non è più scindibile da una riflessione su quali siano le forme organizzative e imprenditoriali più adatte a conseguirne gli obiettivi.
* Introduzione del Working Paper